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Il brigantaggio in Sicilia. La Banda Maurina sui Nebrodi
di Gaetano Barbagallo
Il brigantaggio è da sempre stato considerato sotto la sua accezione più negativa, come sintomo di una degradazione della società che si andava costituendo. Esso pare trarre le sue origini da quell’ondata rivoluzionaria che fu il Risorgimento, se non già dai primi moti in età napoleonica. Certo come asserisce il Croce non si può parlare, a buon titolo, di una Vandea italiana, in quanto ciò che realmente interessò il processo di costituzione del brigantaggio non fu un’ insurrezione mirata di uomini “interamente devoti alla causa della religione e della monarchia” bensì un fenomeno che manifestò la sua preminente evidenza nella causa della resistenza armata.
Ma resistenza armata a cosa? Il brigantaggio come effimera e peraltro inefficace risposta al vuoto lasciato dal regime borbonico o come esito del progetto politico della Destra storica dopo la risoluzione sulla questione meridionale? Quale che sia la risposta che si intenda dare, è certo che il brigantaggio rappresentò, nel periodo in cui ebbe la sua massima diffusione, un tratto peculiare del cambiamento socio – economico che interessava il Sud in questa fase storica.
Rilevanti furono le misure che il governo adottò al fine di affrontare ed eliminare questo fenomeno dilagante. Le campagne, divenute lo scenario ideale delle cruente guerriglie tra forze armate e briganti, rappresentarono il segno tangibile della profonda ostilità delle masse nei confronti di un governo nel quale non si riconoscevano, dell’ingerenza di corpi di polizia che non accettavano e della norma sulla ferma obbligatoria militare che rifiutavano. L’approvazione della legge Pica istituzionalizzò, di fatto, la repressione, innescando una crescita esponenziale degli arresti di massa e delle esecuzioni sommarie degli arrestati, con il preciso intento di sradicare il problema. Il solo risultato, in verità, fu quello di vederne moltiplicate le fila.
Il comportamento del popolo nei confronti di queste bande, rappresentò una naturale conseguenza che venne denominata “manutengolismo”, ossia quell’atteggiamento con cui si favorisce qualcuno in azioni illecite e idealmente condannabili; ciò accadde non perché le masse fossero dedite ad azioni criminali, bensì per partito preso, nei confronti degli eccidi ancor più cruenti e sanguinosi che lo Stato ordinava nel Mezzogiorno.
San Mauro di Castelverde è il luogo dove si formò una delle bande che in quegli anni incuteva un certo timore in tutta la Sicilia e prevalentemente sui Nebrodi: la banda Maurina. Componenti e fondatori i briganti Vincenzo Rocca e Angelo Rinaldi sotto l’egida del capo assoluto Biagio Valvo che l’aveva di fatto costituita nel 1870. Composta all’incirca da quindici elementi, vedeva capeggiare non uno bensì due capi allo stesso tempo che si erano divisi i compiti per attitudini, l’uno, il Rocca, poco dotato intellettualmente, spietato e uomo d’azione, l’altro, il Rinaldi, più intelligente, uomo di relazioni e amministratore della banda. Il loro incontro fortuito rappresentò l’esempio di stretta collaborazione più lungo nella storia del brigantaggio. Rinaldi alle dipendenze presso il feudo di Valvo nel 1871, fu ricercato dalla polizia per aver partecipato ad episodi criminosi e per manutengolismo nei confronti del Valvo stesso. Riparatosi nella campagna di San Mauro, si allea con Rocca ed entra alla guida della banda.
Altri elementi di spicco all‘interno della Maurina, per citarne alcuni, furono Nicolò Accorsi, il “letterato” della Banda, a cui veniva affidato il compito di scrivere le missive di estorsione alle famiglie dei possidenti presi di mira, e Domenico Botindari. Quest’ultimo merita un discorso a parte in quanto non solo fu gregario fedelissimo di Rinaldi, ma presumibilmente, anche suo omicida nel luglio del 1876. In quel periodo infatti i due erano entrati in disaccordo a causa della “morigeratezza” predicata da Botindari. Pochi giorni dopo l‘intervento di un alto capo di un‘altra banda, Antonino Leone da Montemaggiore, Rinaldi, rimasto unico capo, dopo la morte di Rocca, fu ucciso. L’anno che vide l’apice della Maurina è il 1874, periodo in cui oltre alle efferatezze delittuose di cui si macchia si aggiungono i vari giri di estorsioni ai danni di possidenti della zona.
Tra i gregari che costituivano vere e proprie figure di comprimari nelle bande, uno degli eredi che maggiormente fece eco nel panorama nebroideo, ed in particolare a Cesarò, come capo della temuta Banda Maurina, nel decennio successivo a quello che vide i fasti con Rinaldi e Rocca, fu certamente Melchiorre Candino. Originario anch’egli di San Mauro Castelverde, brigante è per necessità, in virtù della disperata condizione che la latitanza imponeva, ma lo è anche per una serie di atti criminosi, nel suo caso tre omicidi, per i quali era ricercato. È probabile che Candino sia venuto in contatto con la Maurina grazie alla conoscenza di Botindari anch’egli militante nelle fila di Garibaldi. Non sarebbe a questo punto da escludere che fosse il Botindari stesso, e non come si disse Candino, il capo della Maurina in quegli anni. Il Candino potrebbe aver preso le redini, solo dopo l’arresto del Botindari nel bosco di Pioppera il 22 settembre del 1892, due anni prima della “distruzione” della banda ad opera dei Leanza di Cesarò. Ma questa, per il momento, è una pura congettura.
La ricostruzione più nota dei fatti che portarono alla disfatta della Banda, così come riportata da Mario Carastro su Bronte Insieme, sembra differire solo per la parte che riguarda l’agguato teso alla Banda dagli “amici” Leanza (secondoalcuni infatti, vi era tra i due gruppi una forma di collaborazione). La versione che circola nel paese che diede i natali ai Leanza è un’altra. Secondo la testimonianza del sig. Trecarichi Calogero, in virtù dei racconti che il padre, Vittorio, alle dirette dipendenze di Gabriele, figlio più piccolo del Leanza autore del massacro, era solito raccontargli, i fatti si svolsero nel modo seguente. I Leanza, contattati direttamente dal prefetto, accettarono di eseguire e sterminare la banda Maurina. Invitata dai Leanza, la Banda si reca nei pressi del monte Ambola, nei possedimenti dei Leanza, per una cosiddetta “manciata” (cena tipica siciliana nella quale si è soliti trangugiare di tutto). I Leanza però si trovano in inferiorità numerica rispetto alla banda che conta un membro in più, così viene a partecipare un membro esterno alla famiglia, un certo Travaglianti che resta di vedetta, assieme ad un membro della banda sul monte Ambola. Il Leanza padre assegna ad ognuno dei figli un uomo da uccidere, mentre il Travaglianti si sarebbe occupato, al rumore degli spari, del suo compagno di vedetta. Nel piano di esecuzione venne contemplata anche la parola d’ordine che doveva segnare l’inizio delle uccisioni: Sant’Antonio (non a caso il protettore degli animali). Durante la cena uno dei commensali, non è certo sapere chi, rivolgendo lo sguardo verso uno splendido esemplare di cavallo esclamò “Beddu stu cavaddu” (Bello questo cavallo) a cui seguì la risposta del Francesco Leanza “San Antonio mu vadda” (San Antonio che lo protegga). Ebbe così inizio lo scontro a fuoco. I Leanza tutti, colsero gli inconsapevoli ospiti di sorpresa, uccidendoli freddamente. Mentre il Travaglianti che era di vedetta dopo aver distratto il “compagno”, lo stroncò alle spalle quando gli spari riempirono la serata.
Questa dunque potrebbe rappresentare un’alternativa alla ricostruzione dei fatti sinora conosciuta: la scarsità di documenti scritti riguardo alle modalità dell’eccidio ci obbliga infatti ad assumerla con una certa cautela.
(primo di una serie di articoli sull’argomento)
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