Francesco Dell’Oro, il ‘faro’ dell’orientamento
Intervista a Francesco Dell’Oro, responsabile del Servizio Orientamento Scolastico del Comune di Milano e autore del libro ‘Cercasi scuola disperatamente’I ragazzi che si presentano allo sportello dell’orientamento scolastico sono spesso vittime di relazioni educative inadeguate. Da cosa è determinata la scarsa attrazione della scuola italiana, e cosa fai per motivarli a continuare a studiare?
Gli adolescenti che incontro ogni giorno nelle scuole e, soprattutto, nella attività di consulenza (colloqui individuali), mi parlano di insegnanti straordinari, di alcuni meno straordinari, ma anche di qualche insegnante che loro definiscono “formato incubo”. Non diventi insegnante perché ti laurei o fai un master. Te lo devi sentire dentro. Nel cuore. Questa professione richiama una grande, immensa responsabilità.
Non abbiamo l’onestà intellettuale di riconoscere che siamo imbrigliati in logiche ideologiche, politiche e sindacali che non ci consentono di affermare che l’attuale organizzazione scolastica è assurda. Il tempo in aula, i programmi, le materie, i testi scolastici e il sistema di valutazione rappresentano i cardini di una scuola più funzionale ad un sistema di cattedre che alla valorizzazione dei talenti. Delle persone.
Gli adulti e gli adolescenti utilizzano linguaggi troppo diversi. Per contenuti, frequenze e modalità. Noi adulti utilizziamo il linguaggio delle parole e con le parole spieghiamo sempre tutto e maledettamente in fretta. Con interventi continui, sistematici e sempre suggerendo la soluzione dei problemi. Gli adolescenti detestano questo linguaggio perché non si sentono protagonisti della soluzione di quei problemi. Il linguaggio degli adolescenti è quello delle emozioni.
I genitori e gli insegnanti devono dare direzione a questi ragazzi. Devono trasmettere esperienze, regole, valori. Ma questo messaggio arriva solo ad una condizione: gli adolescenti devono sentirsi apprezzati e stimati. E’ questa la strada maestra per riuscire a motivarli: coniugare, con sapienza naturale e buon senso, regole e valori con stima e riconoscimento. Invece, spesso, li travolgiamo con giudizi. Chiusi. Penalizzanti. Giudizi che feriscono e mortificano le persone.
Quando i libri, lo studio e l’impegno diventano puro veleno, quando i genitori e gli insegnanti intervengono continuamente parlando solo di scuola con giudizi improvvidi, sistematici e con effetti devastanti sui processi di autostima, quando la scuola diventa un percorso di sofferenza, allora, per i nostri adolescenti, l’abbandono scolastico sembra presentarsi come l’unica via d’uscita. L’unico percorso utile per non soffrire più.
Si fugge. Si lascia la scuola, i compagni, gli insegnanti e, in modo spesso inconsapevole, si dichiara … guerra anche e soprattutto ai genitori.
L’abbandono è vissuto come una liberazione. Dallo studio, dalla fatica, dalla pressione dei genitori e dai giudizi degli insegnanti e, a volte, dei propri coetanei. Gli adolescenti che abbandonano provano disagio e, quindi, vanno alla ricerca di un benessere indefinito, confuso. Per ritrovarsi, poi, più soli. In maggiori difficoltà e, in alcuni casi, su percorsi ad alto rischio.
Non sono pochi i genitori angosciati, con sensi di colpa e incapaci di individuare strategie utili a recuperare non solo un adolescente a scuola ma anche un livello minimo di qualità nelle relazioni.
Credo sia del tutto inutile perpetuare il rito dei convegni, delle conferenze, dei seminari di formazione sui temi della dispersione scolastica. Riproponendo, in modo quasi maniacale e anche un po’ stupido, le solite indagini con le percentuali sui livelli di abbandono.
La nostra scuola, se non cambia organizzazione, metterà in difficoltà sempre di più coloro che sono meno inclini all’apprendimento. E’ una scuola utile, forse (ma non ne sono affatto convinto), per quelli bravi. Per coloro, cioè, che per ceto sociale, preparazione e contesti potrebbero, esagerando un pò, farne anche a meno.
Serve una vera riforma della scuola. Dei ruoli, delle competenze, della didattica, dei testi scolastici, delle relazioni e del sistema di valutazione. Magari, da subito, con la consapevolezza che non abbiamo a che fare con studenti, ma con adolescenti che vanno a scuola. E la distinzione non è affatto irrilevante.
Nel tuo libro “Cercasi scuola disperatamente”, scrivi che rileggendo da adulti le pagelle e le valutazioni che hanno caratterizzato il nostro percorso scolastico, spesso si ha a che fare con un’immagine che non ci appartiene e con giudizi che delineano una persona con caratteristiche diverse da quelle che poi l’esperienza, il lavoro e studi successivi hanno poi confermato. Perché accade questo?
Il consiglio orientativo che, in genere, viene utilizzato, fa riferimento a gerarchie molto opinabili. Quelli bravi li mandiamo al liceo, i meno bravi ai Tecnici, quelli in difficoltà agli Istituti Professionali e la … “croce rossa” ai corsi di Istruzione e Formazione Professionale. E’ come immaginare una strana e curiosa società, divisa in poeti e meccanici. Quelli intelligenti e quelli meno.
In questo modo non facciamo che accentuare quella maledetta separazione tra il sapere e il saper fare, che è una della principali cause dell’abbandono scolastico.
Il consiglio orientativo è imbrigliato in una logica troppo scolastica. E’ figlio di una lettura di quelle che riteniamo essere le capacità o le difficoltà scolastiche.
Non vengono valorizzate ed evidenziate, anzi a volte ci sfuggono proprio, le potenzialità di questi ragazzi. Mi riferisco alle capacità relazionali, di intuizione, di fare gruppo, di esprimere giudizi equilibrati. Alle capacità metacognitive: i livelli di consapevolezza sulla proprie esperienze. Sui vissuti. Sulle proprie emozioni. Ai livelli di determinazione nel perseguire obiettivi che si ritengono prioritari. E così via… La scuola, i dirigenti, i docenti e i cosiddetti esperti devono custodire e preservare un bene prezioso: l’imponderabilità nei processi di crescita, di maturazione e di responsabilizzazione delle persone. Processi che non hanno mai uno sviluppo lineare e costante. Sono fatti di ritardi, anticipazioni e situazioni, a volte, indecifrabili.
Si tratta quindi, interpretando con sensibilità il percorso dei nostri adolescenti, di saperli aspettare. Almeno un po’. Sono soprattutto le competenze richieste dall’organizzazione del lavoro a segnalarci la precarietà e l’assurdità dell’organizzazione scolastica. Le aziende private italiane (indagine Excelsior 2010 a cura dell’Unioncamere) chiedono ai diplomati e ai laureati soprattutto la capacità di lavorare in un gruppo, in un team di lavoro. La capacità di relazionarsi con i clienti (capacità di ascolto e di comunicazione), la capacità di risolvere i problemi e la capacità di lavorare in autonomia.
Perché, allora, continuiamo a riproporre testi scolastici che vengono affrontati e studiati capitolo per capitolo, paragrafo per paragrafo e, mi raccomando, le note! Programmi che vengono spiegati con la velocità della luce. Anche per iniziare in fretta il … ripasso! Straordinario! I nostri ragazzi, alla fine della scuola, dopo una settimana hanno già dimenticato tutto.
Pensiamo, ad esempio, ad un programma di storia moderna o contemporanea. Ma è così difficile immaginare tre o quattro aree tematiche sulle quali avviare un laboratorio di ricerca con approfondimenti, confronti, visite a musei, interviste a testimoni privilegiati, in modo tale che i nostri ragazzi diventano protagonisti di quel sapere.
Che senso ha studiare cinque o sei materie al giorno? Ma qual è la “ratio”?. Il BIEN (Bureau international des écoles nouvelles), nel 1919, aveva definito 30 punti per valutare la qualità delle scuole. Al punto di 19 si legge: ” Si studiano poche materie per giorno, una o due soltanto. La varietà deriva non dai soggetti trattati, ma dal modo di trattarli …”.
Se noi adulti andiamo in sofferenza quando partecipiamo ad un corso di formazione di tre ore, in base a quale presupposto di tipo pedagogico e psicologico un adolescente deve e può garantire livelli di attenzione accettabili stando cinque o sei ore a sentire uno che parla?.
La nostra scuola non ha memoria pedagogica. E, con questa organizzazione, sta mettendo in difficoltà le ragazze e i ragazzi delle nuove generazioni, i genitori e gli stessi insegnanti che, in una organizzazione diversa, potrebbero avere anche la possibilità, uscendo più spesso dallo schema d’aula, di conoscere e valorizzare meglio i propri studenti. E viceversa.
I metodi valutativi Invalsi sono un efficace strumento di valutazione del rendimento scolastico e del grado di conoscenza delle varie materie o rappresentano invece un freddo e anonimo test che non tiene conto della complessità dell’allievo?
Dice molto bene lo scrittore Eraldo Affinati: “..stiamo consegnando l’istruzione italiana alle prove Invalsi con domande in stile patente a risposta multipla”. Il sistema di valutazione scolastico, oggi peggiorato con l’Invalsi, è assurdo e pedagogicamente scorretto e inefficace. Anche perché il risultato dell’apprendimento di una persona non sempre ha a che fare con la sua intelligenza e le sue competenze.
E’ valido il piano del governo (interventi di due anni fuori e dentro le classi, con orientamento, aiuto ai genitori, una seconda opportunità per chi ha lasciato ma anche realizzazione di impianti sportivi, laboratori artistici e altri spazi di socializzazione)? E poi: il super-alunno di Profumo?
Ci deve essere qualcosa che non funziona sulla poltrona del ministro della Pubblica Istruzione, se tutti quelli che si siedono poi, ogni tanto, fanno proposte assurde o prendono iniziative terribili. Qualche anno fa, ci fu chi avviò il sistema Invalsi. Nel 2008, la Gelmini, con la legge 133, articolo 64, punto 6, decise di togliere alla scuola 7.832.000.0000. Oggi, un persona preparata come Profumo lancia questa idea dello studente dell’anno.
Non mi piace una scuola competitiva. Mi dà la nausea. Proviamo a dare a questa scuola una diversa organizzazione, a utilizzare diversamente gli insegnanti ma con maggiori riconoscimenti della loro professionalità. Il confronto con i colleghi europei è quasi mortificante. La scuola deve diventare non una sofferenza ma un laboratorio di ricerca. E se proprio vogliamo premiare qualcuno, perché, ad esempio, non premiamo a fine anno il lavoro di gruppo fatto dalle classi?. Le loro ricerche. I loro studi.
Non a caso, forse, le aziende private italiane chiedono soprattutto, ai diplomati e ai laureati, la capacità di lavorare in gruppo. In un team. In una equipe di lavoro.
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